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10/05/2009 - 08:00

Sala conferenze del Mart

Sans Soleil

I ricordi di viaggi e di luoghi – in particolare il Giappone e la Guinea-Bissau dopo la rivoluzione mancata – nelle lettere di Sandor Krasna, cameraman free-lance, filtrate dall'evocazione e dalla voce (Alexandra Stewart) di una donna sconosciuta. Le sue parole e le immagini che Sandor (lo stesso C. Marker) ha preso dalla realtà sono intercettate e deformate (solarizzate) dagli interventi del videoartista giapponese Hayao Yamaneko e diventano fantasmatiche. Nel dialogo a distanza tra due personaggi invisibili (con l'intrusione di un terzo) c'è “un velo di distanza temporale e spaziale che accentua la forza poetica del testo (bellissimo)” (Roberto Chiesi). Più che storie, sono piccoli aneddoti, metamorfosi di oggetti e molte figure di gatti, molto amati da Marker per il quale sono portatori di una libertà orgogliosamente solitaria. Lungo il tragitto di questo singolare film poetico e ipnotico gli accenni – pessimistici più che pietosi – sulla miseria e lo sfruttamento sociale nel Terzo Mondo. Musiche: Michel Krasna, Isao Tomita. Prodotto da Anatole Dauman. RHV - Ripley's Home Video 2007.

(il Morandini)

Immagini dell'Islanda, guerriglieri della Guinea-Bissau, lettere di un cameraman ungherese, agonia di una giraffa, video-deliri di un giapponese, frammenti della voce di Arielle Dombasle: Chris Marker secerne il suo miele da tutto quello che incontra. Una riflessione ininterrotta sulla memoria e sulle sue tracce. Mi domando, dice lui stesso, «come facciano a ricordarsi delle cose, quelli che non fotografano, che non filmano, che non registrano al video, come faceva l'umanità prima di questi apparecchi a coltivare la memoria... Ora lo so, scrivevano la Bibbia, banda magnetica dell'eternità, di un tempo che dovrà rileggersi senza sosta, per sapere di essere esistito». Felici noi, allora, uomini del XX secolo, che abbiamo sia la Bibbia, sia Chris Marker, fotografo che scrive con le immagini.

(Georges Sadoul, Dizionario dei film)

fonte

www.mymovies.it

La critica

“Che cos’è la poignance des choses, questa intensità pungente delle cose? Che cos’è questa implacabilità nel colpire i sensi che ci impedisce di distogliere lo sguardo? Non è (soltanto) la seduzione delle forme, non è (soltanto) la loro disponibilità ad accogliere e guidare lo sguardo, ma più precisamente quella facoltà di essere in comunione con le cose, di entrare in esse, di essere esse per alcuni istanti. Un’intensità emozionante che nasce dal contatto e che vive esclusivamente nella dimensione della contiguità, dell’adiacenza, della frizione. Sans soleil parla di questo e lo fa con straziante esattezza, infallibilmente. Il “vassallaggio trasognato” di Okinawa, “l’uguaglianza dello sguardo” ritrovata nei mercati di Bissau e Capo Verde, “l’immagine della felicità” di tre bambini islandesi e il “pellegrinaggio a San Francisco” in tutte le location di Vertigo: cambiano i luoghi, i tempi, le circostanze, ma non cambia il timbro affettivo del film. Né documentario né travelogue: più semplicemente un elenco mozzafiato di “cose che fanno battere il cuore”. Principio strutturale di Sans Soleil è il cluster: raggruppamento informale di elementi uniti tra loro in virtù di attrazioni momentanee e aggregazioni provvisorie. L’immagine e il commento verbale (commentaire) si sfiorano, si accarezzano, intrattenendo un rapporto quasi erotico, percorso da un desiderio lancinante di compenetrarsi, di fondersi: la voce vellutata di Florence Delay si adagia morbida sulle immagini accatastate del cameraman Sandor Krasna (pseudonimo di Marker, naturalmente), avvolgendole e, per così dire, fasciandole di uno splendore malinconico. Se c’è bisogno che le immagini caschino, precipitino sulle parole subissandole di “prove visive”, Marker le fa straripare, lasciando che esse occupino interamente lo spazio del discorso, “ostruendolo”. E inversamente se le immagini reclamano un’investigazione verbale, il commentaire si spinge in esse snidandovi scintille poetiche, accendendole di un lirismo folgorante, incendiario. Senza mai dimenticarsi di misurare l’insopportabile vanità dell’Occidente, che non ha mai smesso di privilegiare l’essere rispetto al non essere, il detto rispetto al non detto. Desiderio, malinconia, disvelamento.”

(Alessandro Baratti)