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09/05/2007 - 13:00

Auditorium Melotti

Partner

Ispirato a un romanzo giovanile di Dostoevskij, Partner appare oggi molto meno godardiano e provocatorio di quello che poteva sembrare agli spettatori del 1968. Da alcune dichiarazioni dell’autore si deduce che il film non è tra i più amati, eppure si tratta di un’opera interessante e problematica che offre scorci inaspettati e certamente non si dimentica. Bertolucci racconta di aver rivisto Partner in televisione qualche anno fa trovandovi «la sofferenza di chi ancora non ha capito bene, o di chi è a un crocevia senza sapere in che direzione andare». Per interpretare il doppio ruolo – di un insegnante dell’Accademia d’arte drammatica di Roma e del suo alter ego ribaldo e sovversivo – il regista si rivolge a Pierre Clémenti, reduce dal notevole successo di Belle de jour di Buñuel. Fisicamente l’attore è un equilibrato connubio delle caratteristiche di Francesco Barilli e Allen Midgette, cioè di Fabrizio e Agostino. Ha poi quell’aria da hidalgo allucinato utile al personaggio di Giacobbe, che nell’Antico Testamento rubò la primogenitura con un piatto di lenticchie. Potremmo dire quindi che le due metà distinte di Prima della rivoluzione sono rimaste tali anche dopo la rivoluzione e che il Giacobbe furioso confezioni bombe Molotov al solo scopo di appropriarsi dell’eredità paterna: cosa che Fabrizio faceva semplicemente rientrando nell’alveo familiare borghese. In Partner l’intellettuale introverso, l’agnello sacrificale, sentendosi defraudato dal destino, si duplica in un ribelle, ritrova la sua pelle di lupo e ulula e attacca e morde e vorrebbe sgozzare le pecore più cospicue del gregge. L’autobiografia si lega alla riflessione sul Sessantotto mediante una confezione estremamente suggestiva. Le nette campiture in technicolor – il rosso, il nero, il bianco, il blu profondo – richiamano l’uso del colore nelle scenografie teatrali d’avanguardia e, oltre un esplicito riferimento al pittore romantico Caspar David Friedrich, introducono nel campo stilistico di Bertolucci il cromatismo e le forme di Francis Bacon. Quell’appartamento in cui un Sigismondo calderóniano (e pasoliniano) urla tutta la sua rabbia e la sua impotenza, immerso nella solida tirannia del décor, fatto di tele d’autore e torri di libri, non assomiglia forse a una delle stanze o monadi o prigioni psichiche dipinte da Bacon, dove l’individuo si contorce in solitudine, geme e non è udito, soffre atrocemente senza alcuna speranza di redenzione?