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08/04/2006 - 14:00

Sala conferenze del Mart

Kundun

Ancora una volta una passione. Com'erano L'ultima tentazione di Cristo, Toro scatenato, Mean Streets e, alla loro maniera visionaria e singhiozzata, le saghe "mafiose" di Scorsese, anche Kundun, percorso dall'infanzia alla giovinezza esiliata di Tenzin Gyatso, quattordicesima incarnazione del Dalai Lama (in tibetano, Kundun), ha l'andamento austero e dubbioso di una predestinazione, di una maturazione, di una scelta morale. Non urlato e scandito dal furore, ma controllato da un'armonia maestosa e continua, non è per questo meno visionario: l'ultima parte della fuga verso l'India (introdotta dal pezzo di bravura del dolly che sale inquadrando Kundun al centro di una distesa di monaci morti) scivola con tempismo impagabile tra realtà e sogno, riproducendo la concitazione nervosa di entrambi, con acuti che ricordano la strage di Taxi driver e la resa dei conti di Casinò. È come se con questo film Scorsese avesse asciugato i suoi tormenti, per inseguire la pura stilizzazione(…). Gli interrogativi incessanti che dilaniavano il suo Cristo barbaro e umano sono gli stessi di Kundun (…), ma riportati all'interno di una costruzione che nella "forma" trova la sua compiutezza. Non tessitura delle apparenze (come quella che stritola i protagonisti di L'età dell'innocenza), ma forma come espressione di spiritualità, controllo, trascendenza. La figura del mandala che apre, percorre e chiude il film è il simbolo più sontuoso ed evanescente di questo spirito formalizzato. E l'aggiustamento della prospettiva che scandisce il film (prima è ad altezza degli occhi di un bambino, poi si equilibra, per squilibrarsi di nuovo con il crollo del mondo di Kundun) è il segno più forte del percorso del protagonista. Commovente e intenso senza bamboleggiamenti, Kundun è un film che cerca di trasmettere l'anima attraverso gli occhi.