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07/09/1996 - 19:00

Auditorium Santa Chiara

Concave

Nel 1985, in “Föld”, il movimento concentrico della danza si sviluppava a partire dal contrasto tra il corpo e la terra scura della quale era cosparso il palcoscenico. Nel 1986, in “Typhoon”, i danzatori avanzavano apponendo resistenza a un flusso violento di aria proveniente da tre enormi ventilatori. Nel 1987, in “Staunch”, una percussiva coreografia al maschile veniva bloccata da una parete di vetro trasparente che separava il pubblico dagli interpreti. Krisztina de Châtel, coreografa di origine ungherese classe 1943, formatasi in Germania alla Folkwang Tanzschule di Essen e trasferitasi in Olanda negli anni ’60, è portavoce di una ricerca estetica che, fondandosi su un’analisi del gesto di timbro minimalista, si formatizza in uno stile di danza giocato sul conflitto di forze in opposizione, derivanti dal confronto tra corpo e contesto scenografico. In lei la consapevolezza delle regole dello spazio di ascendenza tedesca, maestri di pensiero Laban e Kurt Jooss, si sposa infatti con un’indagine delle possibilità del movimento risultante da un tipo di studio del rapporto tema-variazioni che ha non poche analogie con la tecnica musicale minimalista degli americani Philip Glass e Steve Reich, le cui  partiture hanno accompagnato di frequente i titoli del Dansgroep Krisztina de Châtel, anno di nascita 1976. Protagonista chiave della prima generazione della danza contemporanea olandese, la de Châtel ha coltivato in questi vent’anni dei fecondi rapporti di collaborazione con artisti visivi quali Peter Vermeulen, autore delle scenografie di “Typhoon”, “Staunch”, “Paletta” e “Concave”. Gli ultimi due titoli sviluppano in modo differente una stessa idea di base, ovvero la contrapposizione tra due gruppi, maschile e femminile, uno dei quali è costretto a muoversi in spazi ridotti. Se in “Paletta” (1992, musica di Steve Reich) sono le danzatrice ad essere ingabbiate in grandi strutture tubolari trasparenti, in “Concave” (1993) è il trio maschile a dibattersi all’interno di due sfere d’acciaio. Due danzatori occupano la palla di dimensione maggiore, l’altro quella minore. Provocano il movimento di entrambe nello spazio scenico mediante lo spostamento dei corpi. Le donne, al contrario, danzano all’esterno. Eppure anche le loro variazioni coreografiche nascono in risposta a un impedimento di partenza: tutte e tre hanno le braccia bloccate dalle mani intrecciate, prima dietro la schiena, poi davanti al busto. Inguainate in una tuta azzurro cielo trasparente, coperta da una gonna più scura a grandi teli aperti sui fianchi, le tre sviluppano sulle note sospese delle “Voci Bulgare” una coreografia puntualizzata da morbide torsioni di spalle e di ginocchia il cui singolare timbro qualitativo è determinato proprio dall’impedimento fisico di partenza. Menomazione che viene riproposta anche dal trio maschile, non appena, liberatosi dalle sfere, si trova ad agire sullo stesso territorio del trio femminile. I sei danzano variazioni sempre più articolate da un punto di vista spaziale: linee che si intrecciano e che si separano, figurazioni parallele e diametralmente opposte, gestite da una geometricità di intento evidente. Ma è una limpidezza matematica, sulla quale incalza l’evidenza di un impedimento costante che suggerisce al pubblico l’impossibilità della perfezione.