Tra i misteri insoluti della storia del cinema italiano c’è senz’altro l’incomprensibile e scandaloso ostracismo subito negli anni da Daniele Ciprì e Franco Maresco, promotori del sodalizio più tagliente e iconoclasta mai cresciuto all’ombra dell’industria cinematografica e televisiva italiana. Forti di una vena creativa di sconcertante vividezza, i due registi palermitani hanno interrogato come nessun altro lo squallore devastante della nostra società, creando una poetica originalissima che mescola Pasolini a Buñuel, Beckett a Buster Keaton. Dopo la fine della collaborazione con Maresco, Daniele Ciprì ha proseguito il proprio percorso espressivo con il consueto rigore, dapprima vestendo con una fotografia raffinatissima alcune delle più importanti pellicole italiane degli ultimi anni (Vincere di Bellocchio, La pecora nera di Celestini), e ora tornando dietro la macchina da presa per dirigere due mostri della recitazione (Toni Servillo e il cileno Alfredo Castro) in una storia tragicomica di ambientazione, neanche a dirlo, siciliana. In attesa che il film sia pronto per i circuiti festivalieri e per la distribuzione in sala, un’occasione da non mancare per dialogare con uno dei pochi veri “artisti” del cinema italiano.
“Il problema è non tradire se stessi, la difficoltà è non rinnegarsi, non cercare il consenso facile, continuando a lavorare come hai sempre fatto. Rifiutando le apparizioni televisive, i talk show che ti invitano, declinando le offerte di lavoro per pubblicità e videoclip. Quello che si è affermato negli ultimi anni è un cinema para- televisivo, pseudo-sociologico, storie di trentenni e quarantenni in crisi, di fallimenti della coppia, un cinema che serve solo ai giornali e ai talk show per alimentare sondaggi. Ma in tutto questo il cinema vero non c’è. Tutt’al più si può parlare di fiction televisiva”. (Daniele Ciprì)
Daniele Ciprì: Nasce a Palermo nell’agosto del 1962. In coppia con Franco Maresco realizza a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 la serie Cinico Tv, programmata sulla terza rete Rai. Sono brevi film trancianti, che fanno deflagrare l’immagine di un’umanità deforme e fiaccata, brancolante in un paesaggio di relitti sbrecciati, plaghe desolate, cieli abbaglianti, silenzi e solitudine. Ne emerge un quadro di cruda pietà che si allarga ben oltre le periferie palermitane in cui vengono realizzate le riprese e che si fa metafora di una deriva antropologica nascosta dietro le quinte della società contemporanea. Sulla medesima cifra grottesco-surreale, venata di riferimenti all’avanguardia storica, Ciprì realizza, sempre a quattro mani con Maresco, ma curando in particolare la fotografia, il lungometraggio Lo zio di Brooklyn (1995), Totò che visse due volte (1998), Il ritorno di Cagliostro (2003) e Come inguaiammo il cinema italiano (2004). Come direttore della fotografia lavora anche ai film di Roberta Torre (Tano da morire, Sud Side Story, Mare nero), Marco Bellocchio (Vincere) e Ascanio Celestini (La pecora nera). Ha da poco finito le riprese del suo prossimo lungometraggio, È stato il figlio.