Nei miei spettacoli non c’è simbolismo né psicologia: tutto ciò che vi si vede trova la propria significazione nell’istante stesso in cui si produce e lo spettacolo non è nulla più di ciò che vi si vede. Il soggetto della danza è la danza stessa.
Merce Cunningham
Ciò che distingue Merce Cunningham dalla maggior parte dei maestri della danza del Novecento è il fatto che la sua opera surclassa giudizi e valori estetici. Di fronte alla sua sistematica e monumentale ricerca, condotta in oltre sessant’anni di ininterrotta attività, sembra quasi marginale soffermarsi su questa o quella coreografia del suo ampio repertorio. Egli ha continuato a interrogarsi sulla natura della danza - a suo dire misteriosamente inafferrabile e di origini divina e per questo così attraente -, sui modi di essere nello spazio e nel tempo del movimento, sulla coreografia e sull’assemblaggio di danze dentro e fuori la scena. Alle domande suscitate in lui anche dal contatto con un milieu artistico e intellettuale non certo e non solo coreutico, egli ha saputo dare risposte pertinenti al suo tempo e però il più possibile oggettive tanto che se il suo tempo di maturazione artistica (gli anni Cinquanta e Sessanta) coincide ormai solo in parte con il nostro tempo, esso non può prescindervi. Confutando e ribaltando a una a una tutte le antiche certezze che avevano reso la danza ciò che era prima della sua tranquilla e sistematica rivoluzione, Cunningham ha cambiato il modo di essere pensata, composta e vissuta la danza stessa. In questo senso egli si può considerare un pragmatico maieuta, una sorta di scienziato del movimento, capace di dischiudere nuove vie e fornire inediti strumenti di lavoro (basti l’uso multiforme della tecnologia di cui si è dotato sin dagli anni Cinquanta) ai tanti appassionati all’arte tersicorea e alla sua composizione. Ma l’opera di Cunningham si presta anche a una lettura di tipo filosofico.
Grazie a questo coreografo che è stato a lungo anche un danzatore la problematica del corpo, nella prospettiva contemporanea, appare in tutta la sua complessità: come qualcosa di non scontato. E il lavoro del ballerino è ben lungi dall’essere riducibile alla riproposta di schemi prestabiliti. Nietzsche subodorava in ogni pensiero e in ogni sentimento “un potente maestro, uno sconosciuto che indica la via”, un “sé che abita il tuo corpo, perché “è il tuo corpo” (Zarathustra). A questa intuizione nietzschiana che ben si adattava a stigmatizzare il lavoro del pioniere della danza libera (Wigman, Dalcroze) fa eco l’inconfutabile constatazione che il corpo, ai giorni nostri, deve essere invece messo in una condizione prossima al vuoto. Per quanto costruito da mille tecniche e in mille possibili discipline formative, egli riesce a far nascere da sé qualcosa di nuovo, se posto in una sorta di assenza, di silenzio da cui tutto può nascere.
Cunningham ha dato molto a questa ricerca “nel silenzio”, a questa sperimentazione che non si lascia guidare dall’intuizione - da Cage, soprattutto, considerata ancora di stampo romantico - bensì dall’oblio di sé che può corrispondere alla ricerca dell’ “altro in sé” o al “sé dell’altro”, poiché il corpo dell’altro nei suoi sostegni, nei sui contatti, come nella sua osservazione tattile e visiva, non si rivela immagine, figura anatomica precisa, ma piuttosto sensazione, intensità in una dimensione che non è più solo visiva quanto soprattutto temporale. Il tempo, suggerisce Cunningham, spinge il corpo a “divenire-corpo”, dunque a “divenire-idea” del corpo.
Alla base delle invenzioni e reinvenzioni della modernità nella danza - e in particolare di quella zona cuscinetto chiamata New Dance, abitata da Cunningham che sta a metà tra Modern e Postmodern - vi è il vuoto di un corpo che ha rinunciato al suo potere, alla sua centralità drammatica, alla sua etica individualistica e ideologica. Vi è un corpo che ha detronizzato la testa per privilegiare il torso (e Torso è il titolo di una celebre coreografia di Cunningham), rendendo quasi superflue le zone semiche (il volto) per dare maggiore autonomia alle membra e realizzare una molteplicità di intrecci in cui ogni corpo è davvero un “frammento in sé”.
L’orientarsi verso il “frammento in sé”(che anche Nietzsche intitolò Fragment an sich, gratificandolo però di un da capo illimitato) ha permesso alla danza di affrancarsi dal suo asservimento a dei contenuti esteriori e, per esempio, a Merce Cunningham di liberarsi dalla tutela di Martha Graham, coreografa totalizzante per eccellenza, per proiettarsi verso il formalismo musicale di John Cage che prescriveva il ricorso all’informale. La dimensione temporale - al contrario di ciò che Rudolf Laban aveva ad esempio professato con l’idea dei corpi che scolpiscono lo spazio aprendo in esso dei volumi - diviene in Cunningham puro ritmo, identificandosi con la definizione cageana di struttura. Non si tratta più, come nell’Espressionismo storico o nella danza drammatica della Graham, di rivelare le contraddizioni della “materia”, di evidenziarne i conflitti, ma piuttosto di eliminare il più possibile gli “affetti” poiché essi oppongono la loro dinamica spasmodica alla leggibilità del tempo: il materialismo di Cunningham, di matrice eraclitea (Eraclito il filosofo del continuo divenire), concepisce la materia-tempo come scorrimento, la danza come acqua, e il corpo del danzatore non si bagna mai due volte nella stessa fonte… Il tempo sfugge al suo potere di trattenerlo.
L’importanza di Merce Cunningham e del compositore John Cage nella storia della danza sta tutta in questa inedita rivelazione del vuoto. Il vuoto che noi siamo e che essi hanno risvegliato “nell’infinito e nell’indefinito delle nostre metamorfosi”. Le metamorfosi, direbbe Deleuze, ben lungi “dal mascherare il vuoto lo rivelano colmandolo”. Come se il vuoto, per essere se stesso e realizzare la sua essenza dovesse svuotarsi del suo proprio nulla e fare il pieno d’essere… Cunningham è dunque il coreografo del vuoto/pieno ed è tale nel continuo divenire, è l’artefice pragmatico e d’orientamento Zen, lo scienziato/poeta della fluidità (non come tecnica di movimento ma come Weltanschauung) e del tempo che fugge non accontentandosi, però, di fuggire, poiché nel suo bagaglio di coreografie, e negli Events, vi è una “testualità” nomade, come in James Joyce, che ritorna alla memoria suscitando però un’altra idea della storia, soprattutto della storia dei corpi.
Marinella Guatterini