Il lavoro di Frédéric Flamand da sempre si rivolge ad un nuovo teatro coreografico composto da un insieme di interfacce tra le diverse discipline della danza e delle arti plastiche ed audiovisive. Nel 1973 fonda il Plan K a Bruxelles, mentre dal 1991 è direttore artistico del Centro Coreografico della Comunità Francese nel Belgio, da lui ribattezzato Charleroi/Danses. Attraverso un lavoro di decomposizione delle rappresentazioni e l’inserimento di tecniche nuove, Flamand propone un confronto tra la realtà e la mediatizzazione, tra l’attore e l’oggetto che consente di commentare e di prendere atto della situazione in fieri e di farne scaturire una serie di interrogativi. Nei suoi spettacoli i danzatori interagiscono con gli oggetti e le macchine presenti sulla scena ed i loro movimenti si trasformano in pulsioni. Le creazioni di Frédéric Flamand hanno girato gli Stati Uniti, il Giappone e numerosi Paesi d’ Europa. Sono sempre caratterizzate dalla multimedialità e centrate sul rapporto danza e architettura. Come Titanic (’92), Ex Machina (’94), Moving Target (’96) ispirato ai Quaderni non censurati di Nijinsky e svolto in collaborazione con gli architetti americani Diller e Scofidio. Sempre con l’ausilio di questo duo statunitense è nato EJM1, Muybridge-Man walking at Ordinary Speed (’98) e EJM2 (’98), il primo rivolto all’opera di Edward James Muybridge, il secondo all’inventore della cromofotografia Etienne-Jules Marey. Inoltre, in occasione dell’esposizione universale di Hannover 2000, Flamand è stato invitato a collaborare con l’architetto Jean Nouvel per realizzare un progetto sul Futuro del Lavoro.Metapolis-Project 972 è il titolo dell’ultimo lavoro di Flamand, presentato in prima nazionale a Rovereto e coprodotto dal Festival Oriente Occidente. E’ il frutto di una collaborazione con l’architetto e designer di nazionalità irachena Zaha Hadid, recente vincitrice del concorso per i Musei di Arte Contemporanea di Cincinnati e di Roma. Flamand ha colto nel lavoro di Hadid la possibilità di fondere le due arti dello spazio: la danza e l’architettura. Ne è nata l’idea comune di integrare i ballerini, gli elementi scenografici e le luci nell’impresa unica di “far ballare lo spazio”. Il percorso della creazione ruota attorno ad una città immaginaria caratterizzata da una serie di contrasti come fluidità/attrito, privato/pubblico, individuo/folla, mobile/immobile, urbanizzazione/spopolamento, ordine/caos. “Ho anche iniettato nella concezione dello spettacolo – spiega Flamand – questa idea dello sviluppo della realtà virtuale collegata all’emergere delle nuove tecnologie della comunicazione, che sono generatrici di processi di materializzazione del corpo”. Là dove l’ambiente urbano è sempre più anonimo Metapolis è “la visione di un al di là della città nello spazio ma anche nel tempo della sua rappresentazione”. Attingendo dalle avanguardie della prima metà del ventesimo secolo, in particolare dal futurismo e dal cubofuturismo, i due ideatori affrontano il tema del rapporto tra l’uomo e la città, attraverso il movimento fisico ed astratto e l’utilizzo dello spazio reale e virtuale. Zaha Hadid ha una “visione della città come luogo intessuto di reti continue di energie che saturano lo spazio e che circondano i corpi”. Nella scenografia gli unici richiami tangibili agli spazi urbani tradizionali sono tre ponti, rientrabili e mobili, tre simboli che rappresentano metaforicamente la comunicazione e l’impatto umano sul sistema delle reti urbane. Il resto della scena è composto da griglie di linee e proiezioni sullo schermo che costituiscono una sorta di “disegno informatico” e di “tema iconografico”. Lo spazio scenico è così mediatizzato e questo andare oltre la città, verso una massa globale ed un universo totalizzante, viene rappresentato coreograficamente da Flamand in un alternarsi di contrapposizioni cicliche come la gestualità fluida e il ritmo cadenzato del lavoro oppure i vortici, le pulsioni rapide, i movimenti più lenti. La danza ridiventa il luogo del vissuto sociale e nella velocità della metropoli moderna l’uomo ha bisogno di fermarsi e di ripiegare su se stesso in un “universo simbiotico” con il tessuto della città.