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09/05/2009 - 08:00

Sala conferenze del Mart

L'accordatore di terremoti

Alla vigilia del suo matrimonio, la splendida Malvina, cantante lirica, viene uccisa sul palco, davanti al pubblico. L’inquietante Dottor Droz s’impossessa della salma e la porta nella sua dimora, strana e gigantesca, in riva all’Oceano, dove costruisce robot musicali. Per occuparsi delle sue creazioni, Droz convoca Felisberto, un accordatore di pianoforte. Guidato da una padrona di casa seduttiva e materna, quest’ultimo, candido e tenero, scopre con sorpresa la ragione della propria visita e l’universo del dottore: i servitori, i boschi, il mare, i robot, tutto gli sembra strano, avvolto nel mistero. Ogni sera l’accordatore sente un canto affascinante di cui non riesce a stabilire la provenienza. Deciso a penetrarne il mistero, segue la voce e incrocia furtivamente Malvina, che il dottore ha riportato in vita. Durante una passeggiata, la trova su una panchina di fronte al mare; sembra assente, parla poco, e pian piano Felisberto capisce che Droz vuole farne il clou di un’opera diabolica, mettendola in scena al fianco dei robot. Toccato dalla bellezza e dalla fragilità della donna, l’accordatore decide di adoperarsi per liberarla.

fonte

www.mymovies.it

La critica

The Piano Tuner of Earthquakes, è pieno di fascinazioni letterarie e terse atmosfere fiabesche, dove il grottesco, il candore e il disincanto si mischiano nella descrizioni di umanità contraddittorie. I Quay si muovono in un universo fantasmagorico che richiama i contrasti di luci dell’arte romantica e dell’espressionismo, popolato da automi, accordatori-amanti, professori pazzi, morte resuscitate, padrone di casa sensuali e materne. Sembra di trovarsi in uno dei racconti del grande Bruno Schulz o seguire le derive delicate dei personaggi di Robert Walser, ai quali i due fratelli si sono più volte ispirati. Il nome del professor Droz, il delirante padrone dell’isola metaforica dove tutto si svolge, richiama alla memoria il caro vecchio ciarlatano di Oz e la sua follia, il suo delirio d’onnipotenza, rimandano ancora al grandissimo Zardoz, con i suoi immortali costretti alla noia ciclica come fossero automi di carillon meravigliosi, proprio come i personaggi di questo film. Poi c’è tutto l’immaginario gotico e horrorifico del mad professor che vuole controllare la natura, o le sensualità inespresse e trattenute della divina Barbara Steele, e ancora ritroviamo il mito d’Orfeo con una splendida Euridice/Judy Garland, dalla pelle bianchissima e dal canto straziante.
Il tempo, la ciclicità, la follia, la natura, il mistero, il candore, l’inganno, prendono forme in una storia di corpi meccanici, quelli degli automi che rubano anima e liquidi a corpi naturali, sia vivi, ancora pulsanti come Felisberto l’accordatore di piano convocato per un compito assurdo, che morti, come la cantante Malvina. E ancora, il tema del doppio (Felisberto è il sosia del promesso sposo di Malvina), della condanna, della dannazione, tutto rimanda alla letteratura ottocentesca e del primo Novecento.
Gli amatissimi pupazzi, animati dai Quay in decine di cortometraggi, nella loro interazione con gli esseri viventi mischiano le carte in tavola, interrompono la ciclicità dei carillon catastrofici nei quali sono relegati, sanguinano persino, vivono e muoiono, un po’ creature demoniache e un po’ vittima del proprio destino. E se i pupazzi si animano, gli uomini, Felisberto Malvina Droz, la loro anima la perdono dentro corpi costretti a diventare nuovi automi di carillon naturali, e ripetere eternamente l’attimo prima dell’amore.
È notevole l’abilità dei Quay nel passare dalla fantascienza al gotico, da Bava a Jess Franco via Jack Arnold, costruendo un mondo che segua le poco ferree regole dell’impossibile fiabesco, del grottesco, senza scadere mai nell’iperbole e con un senso della misura e del dosaggio delle parti sempre equilibrato, come perfetti direttori d’orchestra che maneggiano materiali e linguaggi disparati. La fotografia è spesso ad alto contrasto, a tratti espressionista, a volte morbida e onirica, e alterna un marrone ramato nel bosco a un celeste slavato e gelido d’oltretomba nelle scene sulla scogliera, a un blu scurissimo con sprazzi improvvisi di luci spot nel teatro d’opera, a un rosso da tramonto impressionista. I volti dei personaggi hanno spesso uno sfumato flou che li porta lontano nella favola, nell’incubo, nel sogno, nella metafora. Tutto è perfettamente funzionale, tutto vive dell’altro, tutto contribuisce a definire un mondo della deriva di sé. Non è più tempo dei gabinetti di Svankmajer, per i due gemelli americani nazionalizzati inglesi: l’emancipazione dal maestro è arrivata ormai da tempo. Il loro è un cinema ambizioso e anacronistico, nel vero senso del termine, e questo è quello che li rende davvero unici nel panorama del cinema contemporaneo. I Quay hanno elaborato elementi da fonti e tempi diversi e hanno costruito un loro immaginario forte e riconoscibile, una loro isola di Droz dove l’impossibile, almeno lì, accade.

(Eugenio Barzaghi)