Frédéric Maire, direttore della Cinémathèque Suisse e già organizzatore al festival di Locarno (di cui è stato il curatore artistico dal 2005 al 2009) di un’importante retrospettiva del lavoro cinematografico di Delbono, racconta che ci fu un’epoca in cui si parlava di “opera-stilo”, corrispondente a un’idea di cinema fatto così come se si scrivesse, alla velocità della luce o del pensiero. Con Pippo Delbono, sostiene Maire, la cinepresa si fonde con il corpo del cineasta. È questa la sua prospettiva del “corpo cinema” che spiegherà a Rovereto. La cinepresa diventa un prolungamento fisico del regista, ed è al tempo stesso il suo sguardo, il suo pensiero e il suo gesto: l’autore incarna la cinepresa. Presenza che s’impone sia sulle scene teatrali sia sugli schermi cinematografici (come attore nei film di Guadagnino, Risi o Bertolucci), Delbono si è fatto sempre più discreto e marginale sullo schermo dei propri film. In Guerra (2003) e in Grido (2006), che sono stati i suoi primi lungometraggi, è ancora sia dietro che davanti all’obiettivo. Ne La paura (2009), girato interamente con un telefono cellulare, scopre qualcosa che gli dà una maschera, brandendo il telefono come il prolungamento di un arto che gli permette di stabilire una relazione nuova con la realtà. Amore Carne (2011), alla cui produzione ha partecipato la Cinémathèque Suisse diretta da Maire, è stato realizzato anch’esso con strumenti improntati al massimo dell’economia. Questo film prosegue la medesima ricerca stabilendo un rapporto intimo, quasi segreto e ancora più fisico con l’obiettivo, che Pippo tende a nascondere. Ed egli vi compare soltanto a tratti e per frammenti, respiri e riflessi. Esiste solo per ciò che sta mostrando e per ciò che dice, e la sua voce sembra l’emanazione diretta non più dell’uomo, ma delle immagini: si trasforma in “corpo cinema”.