Un viaggio visionario, oscuro e perturbante quello che il multidisciplinare artista belga Jan Fabre costruisce per il suo danzatore feticcio Cédric Charron. In Attends, attends, attends… (pour mon père) indaga il senso del tempo nell’assoluta distanza percettiva esistente nel rapporto padre-figlio. L’uno, il padre, ha già visto tutto, l’altro, il figlio, deve ancora scoprirlo. E chiede tempo. La domanda quindi di Cédric al padre è chiara: “Aspetta, aspetta, aspetta!”. Un assolo sull’arte del procrastinare, del rimandare a più tardi, in cui il possibile prende forma in uno spazio-tempo sospeso, un limbo in attesa dell’inevitabile.
Immerso in una coltre di nebbia Cédric Charron vestito di rosso fiammante sembra un novello Caronte che rema per attraversare lo Stige. Saetta nell'aria trasformando il proprio corpo plastico in quello di una bestia feroce o di un Cristo sulla via Crucis. Lo spunto della pièce è una confessione, vera, di Cédric al padre sulla paura della perdita, nonché un'autoaffermazione del suo essere artista (“in quanto artista”, commenta Fabre, “è uno specialista dell’atto del morire”). Eppure questo lavoro può essere considerato un racconto a quattro voci. Perché questa lettera-testamento, questo rito funebre che evoca fantasmi e risveglia la morte non impedisce di pensare che sia anche un addio che Fabre destina al suo di padre. E, nello scorrere della visione, la dimensione del mistero si fa assoluta, ci riguarda da vicino. Anche noi posti di fronte all’incognita del trapasso dall’impressionante presenza scenica di Charron e dal genio compositivo di Fabre.