Come si costruisce una carriera artistica lontano dai grandi centri urbani? Quali strumenti servono ai giovani operatori e operatrici culturali per restare, e prosperare, in territori rurali o periferici? E quali nuove forme di alleanza, racconto e comunità stanno emergendo in Europa?
Queste sono alcune delle domande che hanno attraversato Rooting Futures, l’Atelier di EDN (European Dance Development Network) dedicato a giovani artiste e curatori nelle aree periferiche, ospitato nella nostra casa della danza il 4 e 5 novembre 2025. Per due giorni, 32 professionisti/e provenienti da 11 paesi hanno condiviso pratiche, dubbi e desideri, generando uno spazio in cui confrontarsi da pari a pari su ciò che significa lavorare nella danza oggi, lontano dai centri del potere culturale.
Una delle prime riflessioni si è sviluppata attorno al tema del racconto, guidata dalla docente e ricercatrice ’Funmi Adewole, che lavora da anni sul rapporto tra narrazione, pratiche diasporiche e performance, il gruppo ha esplorato lo storytelling come dispositivo fondamentale per orientarsi nel proprio contesto. È emersa una consapevolezza comune: saper raccontare il proprio lavoro significa creare relazioni, trovare un linguaggio condiviso con interlocutori diversi, dai finanziatori alle comunità, dalle istituzioni agli artisti, e dare forma a una visione che possa essere compresa e sostenuta. Raccontarsi diventa così uno strumento di cura, una pratica per rimettere a fuoco intenzioni, confini e posizionamento.
Da qui il passaggio al tema delle alleanze, affrontato attraverso un workshop con la curatrice italiana Silvia Bottiroli e uno speed-date tra artisti, artiste e curatrici. Il gruppo ha lavorato sulla consapevolezza che ogni progetto è inserito in un ecosistema fatto di persone, luoghi, istituzioni, tensioni e possibilità. Spesso ciò che determina la riuscita di una collaborazione non è l’allineamento perfetto delle visioni, ma la capacità di costruire fiducia, trasparenza e continuità. Alcuni principi sono tornati più volte: condividere aspettative e limiti fin dall’inizio, rendere visibile il processo di lavoro, non temere il conflitto come parte naturale della collaborazione. Per chi opera lontano dai contesti metropolitani, dove le risorse sono scarse e le distanze ridotte, queste alleanze diventano vere e proprie infrastrutture: condizioni che permettono ai professionisti di restare, crescere e incidere nel proprio contesto.
Il lavoro con le comunità locali, spesso cruciale per chi abita zone periferiche, ha trovato spazio nel laboratorio dell’artista australiana Samara Hersch, nota per le sue pratiche partecipative e intergenerazionali. Qui è emersa con forza l’idea che non esiste un metodo universale per coinvolgere le comunità. La chiave è partire dall’ascolto, non da un format predefinito. Molti partecipanti hanno sottolineato come i teatri e gli spazi culturali “istituzionali” possano risultare intimidatori: per questo spesso la relazione si costruisce meglio entrando negli spazi della comunità, usando linguaggi accessibili, curando la dimensione dell’accoglienza e definendo con chiarezza il ruolo dell’artista, che non può sostituirsi a figure educative o sociali. Nei piccoli centri cittadini, poi, la prossimità con i decisori politici può trasformarsi in un’opportunità per incidere sulle politiche culturali locali, a patto che il lavoro con le comunità sia costante, radicato e non episodico.
Su tutto, è emersa una necessità trasversale: quella di reti di sostegno tra giovani professionisti, sistemi di sostegno reale, continuativo, multilivello. Per molti giovani operatori e operatrici, artisti e artiste, che lavorano in zone rurali o periferiche, la difficoltà maggiore non è di natura artistica, ma strutturale: l’isolamento geografico, la scarsità di opportunità, la necessità di viaggiare per potersi confrontare.
L’Atelier ha dato forma a una consapevolezza condivisa: le reti servono per non sentirsi soli e sole, per confrontarsi tra pari, per normalizzare percorsi non lineari, per condividere risorse e visioni.
Rooting Futures ha restituito l’immagine di una generazione attenta alle relazioni, radicata nei territori, interessata a processi condivisi. Una generazione che, proprio a partire dalle aree rurali e periferiche, sta immaginando nuove modalità di fare arte: più lente, più sensibili, più comunitarie.