Blogger, podcaster, ricercatrice e attivista italo-palestinese, Jamila insieme al gruppo Giovani palestinesi d'Italia, ha una grande missione: riuscire cambiare l'immaginario distorto del mondo arabo che si è diffuso in Occidente.
Insieme al giornalista Christian Elia e alla docente universitaria Silvia Moresi terrà l'incontro La geopoetica del mondo arabo all'interno della rassegna Linguaggi martedì 6 alle ore 17.30 nella sala conferenze del Mart.
Le abbiamo fatto qualche domanda per approfondire le sue origini e il suo ruolo di attivista.
Ho 26 anni e sono italo-palestinese, mamma è italiana, di Napoli e papà palestinese cresciuto in un campo profughi in Giordania e arrivato in Europa per studiare una volta raggiunta la maggiore età. Il contesto familiare in cui sono cresciuta mi ha dato la possibilità di esplorare metaforicamente il mondo spaziando con la mente senza barriere o pregiudizi. All’università ho deciso di fare relazioni internazionali e poi un master in studi sul Medio Oriente e attualmente lavoro all’European Legal Support Center, un’organizzazione legale che dà supporto a palestinesi che in Europa subiscono diffamazione e discriminazione. Mi sento fortunata perché sono in un ambiente lavorativo che rispecchia i miei interessi e la mia missione. Faccio parte infatti dell’associazione Giovani palestinesi d’Italia, con cui cerchiamo di fare un lavoro di attivismo, sensibilizzazione e educazione. Non è corretto parlare di conflitto, ma di causa: è ingiusto mettere sullo stesso piano Palestina e Israele come spesso accade a livello mediatico contribuendo alla costruzione di narrazioni stereotipate. Con questa associazione ho deciso di aprire un podcast, Cronache in diaspora, che è nato dalla necessità di risposte sia personali, legate a questioni identitarie, che alla grande domanda collettiva: “Come si supera il problema dell’identità quando vivi una diaspora?” Ovviamente non c’è una risposta univoca, ma il mio obiettivo è di restituire soggettività e dare spazio a storie che troppo spesso non hanno voce. Per adesso ho ricevuto un buon feedback da parte dei palestinesi stessi, molti mi hanno detto di aver ritrovato nelle storie del podcast similitudini con la propria.
Per me è stato un viaggio quello della scoperta della mia identità, un viaggio che accomuna e ha accomunato tanti di noi. Da piccola vivevo in un paese di 4mila abitanti della provincia di Milano dove mio padre era uno degli unici immigrati, non ho avuto la possibilità di confrontarmi con persone che avessero storie simili alla mia. Inoltre, la questione dell’identità è molto complicata in Italia. Penso che il nostro paese non sia ancora pronto ad accogliere le diverse identità; ad esempio il mio nome e cognome sono stati molto “scomodi” quando ero piccola, lo leggevano tutti in modo errato e nessuno mi chiedeva la pronuncia corretta. Penso che la questione del nome sia centrale per sentirsi accettati in una comunità e io non ho mai percepito da parte delle istituzioni, che possono essere da piccola l’asilo, la scuola poi l’università, un vero interesse per la mia persona.
Ho scoperto Giovani palestinesi d’Italia casualmente ai suoi arbori, nel 2017/18, da una mia compagna di corso anche lei di origini palestinesi. Negli ultimi due anni è cresciuto molto come gruppo, abbiamo seguito anche sui social perché quello che facciamo è dare possibilità di accesso alle informazioni traducendo le notizie che ci arrivano dalla Palestina per renderle fruibili agli italiani. La nostra forza, ma anche la nostra fortuna, è essere cittadini italiani, abbiamo una carta di accesso prioritaria rispetto ai nostri genitori. Oltre al lavoro di informazione digitale organizziamo tante iniziative nelle città più grandi italiane, per avvicinarci alle persone e diffondere il pensiero che l’Italia, grazie al suo affaccio sul Mediterraneo, ha molte più cose in comune con la Palestina di quanto possano pensare.
La possibilità di dare spazio. Credo che la cosa migliore che può fare il mondo delle istituzioni culturali, per partecipare al cambiamento, è decolonizzare il mondo della cultura, includere all’interno del proprio spazio di attività persone con background diversi, dare voce e stare in ascolto delle soggettività, soprattutto quelle per così dire “altre”.